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RedazioneParlando di ristorazione, gli addetti ai lavori – chef, cuochi e ristoratori – sostengono che la cucina tradizionale italiana è snobbata a livello internazionale. Per fare alcuni esempi: il New York Times raramente cita o recensisce ristoranti italiani di alta fascia, mentre in Asia la Guida Michelin è riluttante a premiare ristoranti italiani e il 50 Best Restaurant li nota a malapena.
Un problema che, se non affrontato, rischia di avere ripercussioni anche sul piano economico. Una situazione che compromette il riconoscimento e il valore della cucina italiana.
E allora, la cucina italiana nel mondo è in crisi identitaria ed economica?
Fine dining – che dicono sia in crisi – o trattoria, senza specifici riconoscimenti?
Quale strada deve imboccare in futuro la nostra cucina, lo abbiamo chiesto a Giacomo Bullo, Comminucation manager di ALMA, il più autorevole centro per l’alta formazione in cucina e nell’ospitalità italiana:
«Parlare di crisi della ristorazione, ma anche del concetto di trattoria italiana, un mancato riconoscimento può sembrare un argomento molto facile da trattare. Sì, è vero che il fine dining può avere una certa allure o suscitare un certo fascino anche per il segmento del lusso. A questo, ovviamente, ciò che ha reso grande un po’ la cucina italiana nel mondo è stata per la valorizzazione del prodotto che passa attraverso attori della trattoria italiana. La trattoria italiana, nel corso degli ultimi 20-30 anni, ha dovuto lottare contro il cosiddetto italian sounding, le famose ricette tradizionali che nella realtà non esistevano nel bagaglio culturale italiano. Però, da questo dobbiamo anche imparato che la cucina italiana ha saputo plasmarsi in funzione del territorio in cui si trovava, il cosiddetto “spaghetti with me bols” che non esiste nella cucina nella codifica italiana, ma che trae origine da un ragù napoletano, piuttosto che un ragù alla bolognese, quindi, una commistione di ingredienti».
Ma alla fine, come dicono, alcuni premi sono necessari per il riconoscimento o lasciano il tempo che trovano?
«Dal punto di vista della riconoscibilità dei ristoranti attraverso i premi va detto che – sempre di più, anche in contest quali 50 Best, che in questo caso qui potrebbe essere apparentemente solo non riconoscere il concetto di trattoria, in verità si va a creare il concetto di experience, quindi, all’andare a visitare un ristorante fine dining si affianca la conoscenza di un produttore, che potrebbe essere di vino piuttosto che un artigiano del formaggio. Ecco, tante volte in queste experience, penso a Fifty Back, ma anche alla guida Michelin, si vanno a disegnare itinerari che coniugano sia l’esperienza tri-stellata all’apice della classifica, ma evidenziano e sottolineano l’importanza del prodotto che andrà lavorato. Quindi, anche l’alta scuola Alma – nel formare cuochi e professionisti che padroneggino le tecniche di preparaziobe – favorisce la conoscenza e il riconoscimento del livello qualitativo che può avere un prodotto capace di esprimere al meglio il made in Italy italiano. Il fine dining può essere l’elemento attrattivo, ma al contempo, saper fare un ragù a New York, piuttosto che riuscire a trovare una grande mozzarella di bufala a Tokio, rappresenta un fattore vincente per quello che è la valorizzazione del made in Italy enogastronomico nel mondo».
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