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RedazioneA partire dal 1° agosto gli USA imporranno, sull’importazione dei prodotti italiani dell’agroalimentare, i famosi dazi. Certamente il 15% è meglio del 30% (in precedenza minacciato), ma il 15% resta pur sempre un notevole – se non insuperabile – ostacolo per le nostre esportazioni, considerando che negli ultimi tempi, oltre ai dazi, esportare negli Stati Uniti – con un dollaro deprezzato di circa il 10-12% rispetto all’Euro – significa di fatto rimetterci altri soldi… Tanti, tantissimi.
Insoddisfatti, molto insoddisfatti, tutti gli operatori del settore, e non solo i produttori Food & Beverage, l’Italia insieme all’Europa esce con le ossa rotta dalla querelle: da una parte accetta i dazi del 15%, ma di fatto rinuncia ai contro dazi sulle BIG TECH americane che in Europa dettano legge, e infine accetta di acquistare in più alcune centinaia di miliardi di dollari di prodotti energetici.
In altri termini, la nostra presidente della UE ha fatto la stessa figura, e ha avuto la stessa sorte, di chi si trova ingenuamente di fronte all’abile, scafato e cinico giocatore delle tre carte. Il problema per le nostre produzioni agroalimentari è enorme, fortissima la preoccupazione nel mondo del vino, degli spirits e degli aceti italiani.
Le principali associazioni di settore – come Federvini e Unione Italiana Vini (UIV) – lanciano un appello congiunto alle istituzioni italiane ed europee per tutelare un comparto strategico per l’economia nazionale. «Un dazio al 15% rappresenta una soglia preoccupante per tutto il comparto» – afferma Giacomo Ponti, presidente di Federvini. «L’obiettivo condiviso – continua Ponti – resta una percentuale più sostenibile per le nostre imprese, pur sapendo che l’optimum sarebbe dazio zero. La speranza è che ci sia ancora margine per proseguire nel dialogo con un partner fondamentale come gli Stati Uniti».
Ancora più dettagliata e allarmata è la posizione di Unione Italiana Vini: «Con i dazi al 15% il bicchiere rimarrà mezzo vuoto per almeno l’80% del vino italiano» – ha dichiarato Lamberto Frescobaldi, presidente di UIV. «Il danno stimato è di circa 317 milioni di euro nei prossimi 12 mesi, che potrebbe salire a 460 milioni in caso di perdurante svalutazione del dollaro. Per i partner commerciali USA si parla di mancati guadagni fino a 1,7 miliardi di dollari».
Entrambe le associazioni chiedono interventi concreti a governo e UE, per difendere un settore che, grazie al buyer statunitense, ha contribuito in modo determinante alla crescita delle imprese italiane del vino. In gioco non c’è solo un segmento industriale, ma un modello produttivo fondato su qualità, identità e rapporti internazionali costruiti nel tempo.
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